Traduzione a cura di Davide Baventore dell’articolo “Harrow + Wunderink + Open Dialogue = An Evidence-based Mandate for A New Standard of Care” di Robert Whitaker del 17 luglio 2013. Ritengo questo articolo estremamente interessante, ed in un certo senso rivoluzionario, in quanto coniuga la precisione scientifica ad un atteggiamento non sottomesso alla medicina mainstream; da leggere e diffondere. Segnalo anche la vicinanza di queste indagini a quelle di Stan Grof, psichiatra che dopo le sue pluriennali ricerche al Maryland Psychiatric Research Center si fece propulsore della necessità di una rete di accoglienza e soccorso per le crisi psicotiche, che a suo parere sono troppo spesso mescolate con vere e proprie crisi evolutive. Grof sostiene che gli psicofarmaci possono avere durante una crisi evolutiva un effetto soppressivo che ne blocca la dinamica profonda olotropica creando gravi danni. Per questo ritiene necessaria tale rete psicosociale, che permetta di accogliere i pazienti e seguirli nella fase acuta con interventi di sostegno e psicoterapeutici.
Massimo Soldati
Gli ultimi risultati della ricerca
Sulla scia del nuovo studio del ricercatore olandese Lex Wunderink, è tempo per la psichiatria di fare la cosa giusta e riconoscere che, se vuole fare meglio per i suoi pazienti, deve cambiare i suoi protocolli per l’utilizzo di antipsicotici. L’attuale standard di cura, che in pratica comporta l’uso continuo di farmaci antipsicotici per tutti i pazienti diagnosticati con disturbo psicotico, riduce chiaramente la possibilità di recupero funzionale a lungo termine. (Uno degli autori di MIA [MadInAmerica.com], Sandy Steingard, ha scritto di recente a proposito dello studio di Wunderink che è stato pubblicato il 3 luglio su JAMA Psychiatry online.)
Lo studio di Wunderink, proprio perché ha un disegno randomizzato, completa in modo molto convincente lo studio di Martin Harrow sui risultati a lungo termine dell’uso di antipsicotici. Inoltre i risultati riportati dai professionisti dell’Open Dialogue nel nord della Finlandia forniscono un’idea, fondata sui dati, di quello che sarebbe possibile se la psichiatria modificasse i suoi protocolli per l’utilizzo degli antipsicotici basandosi principalmente sulle indicazioni che emergono dagli studi Harrow e Wunderink .
Ecco come i tre studi si completano così bene fornendo una convincente logica evidence-based per cambiare le norme di prescrizione degli antipsicotici.
Lo studio di Harrow
Martin Harrow, uno psicologo dell’Università dell’Illinois Medical School, ha seguito 145 persone con diagnosi di schizofrenia o disturbo psicotico per 15 anni. Il suo era uno studio prospettico e naturalistico. Tutti i pazienti sono stati inizialmente trattati con antipsicotici e poi Harrow ha verificato le loro condizioni a intervalli regolari per valutare i miglioramenti e l’assunzione degli antipsicotici. Tra i suoi numerosi risultati, ci sono questi tre importanti relativi a pazienti con schizofrenia :
- Dopo 15 anni, il tasso di guarigione dei pazienti schizofrenici che non assumono antipsicotici è del 40 %, contro il 5 % di coloro che li prendono. La definizione data da Harrow di “guarigione” include una componente funzionale (se i pazienti stanno lavorando, se conducono una vita sociale soddisfacente, ecc ) e questa componente funzionale è stato uno dei fattori principali nel giustificare il tasso di guarigione molto più elevato per il gruppo che non assumeva antipsicotici. I pazienti trattati con antipsicotici potevano sperimentare la remissione clinica dei sintomi, ma erano ancora in grado di funzionare bene nella società.
- La differenza dei risultati tra i due gruppi (i pazienti affetti da schizofrenia con e senza antipsicotici) si è evidenziata trai follow-up a due e cinque anni dall’esordio. Nella valutazione effettuata a due anni, la differenza nei risultati non era così notevole.
- Una volta che i pazienti che non assumono farmaci sono diventati stabili, hanno avuto tassi di recidiva molto bassi. Sia il follow-up a 10 anni che 15 anni mostrano che le persone che non assumono antipsicotici hanno molta meno probabilità di sperimentare sintomi psicotici rispetto a quelli che li prendono.
Gli antipsicotici peggiorano gli esiti della psicosi?
Una volta pubblicati i suoi risultati sul follow-up a 20 anni, Harrow ha posto un interrogativo ovvio. Gli antipsicotici peggiorano i risultati a lungo termine? Per lo meno, conclude Harrow, è evidente che alcuni pazienti affetti da schizofrenia possono avere ottimi esiti nel lungo periodo senza l’assunzione di farmaci, e che i protocolli di prescrizione degli antipsicotici devono consentire questa possibilità.
Lo studio di Harrow mette evidentemente in dubbio l’appropriatezza degli attuali standard di cura per i pazienti schizofrenici. Tuttavia, coloro che erano desiderosi di difendere l’uso attuale e gli standard di prescrizione dei farmaci hanno respinto i risultati dicendo che il suo era uno studio naturalistico e non randomizzato (che prevede l’assegnazione casuale dei soggetti alle varie condizioni sperimentali, n.d.r.). Così, dicono, ci potrebbe essere qualche caratteristica personale dei pazienti che hanno deciso di non assumere farmaci che spiegherebbe i loro migliori risultati. La differenza nei risultati quindi non sarebbe stata a causata da un “danno” provocato dagli antipsicotici.
Ora, io personalmente penso che i risultati di Harrow non possono essere spiegati in quel modo perché in ogni sottogruppo di pazienti del suo studio i soggetti che non hanno assunto antipsicotici hanno avuto risultati nettamente migliori (nel complesso). Se i farmaci fossero veramente utili semplicemente non avremmo tali risultati e se – al contrario – generano un peggioramento sul lungo periodo questi sono esattamente i risultati che ci aspetteremmo. Ma è stata la mancanza di randomizzazione che ha fornito un via d’uscita intellettuale ai sostenitori delle pratiche di prescrizione correnti. La randomizzazione è il gold standard per la medicina evidence-based, e quindi i risultati di Harrow sono stati respinti.
Lo studio di Wunderink
Wunderink ha dato alla psichiatria uno studio randomizzato sugli esiti a lungo termine dell’utilizzo degli antipsicotici. Nel suo studio il campione è formato da adulti con un primo episodio psicotico e tutti sono stati stabilizzati con antipsicotici per sei mesi (n = 128), poi sono stati assegnati casualmente a due condizioni sperimentali
- sospensione del farmaco / riduzione del farmaco (gruppo DR – drug reduction), o
- somministrazione standard del farmaco ( gruppo MT – drug maintenance).
In altre parole, questo era uno studio randomizzato progettato per vedere quale protocollo di trattamento produce i risultati migliori: sospendere gli antipsicotici ( o abbassarne molto la dose ) ai pazienti al primo episodio psicotico o procedere con i protocolli di somministrazione comunemente usati.
Wunkerink ha verificato i risultati dopo 7 anni su 103 pazienti. Ecco le sue conclusioni salienti:
- Dopo di sette anni, quelli del gruppo DR (sospensione farmaco, n.d.r.) avevano un tasso molto più elevato di guarigione ( 40,4% contro 17,6%). La differenza nel tasso di guarigione è dovuta al fatto che quelli del gruppo DR avevano un funzionamento molto superiore agli altri.
- Dopo i primi 18 mesi, vi era poca differenza a livello funzionale. La divergenza comincia a diventare evidente dopo quel momento ( come nel caso dello studio Harrow ).
- In termini di rischio di recidiva ( controllo dei sintomi clinici ), la percentuale di recidive a 18 mesi era in realtà più elevata per il gruppo DR ( 43 % vs 21 % per il gruppo MT ). Ma da quel momento in poi le recidive si verificavano con maggiore frequenza nel gruppo MT tanto che dopo 3 anni il tasso di recidiva era più o meno lo stesso per i due gruppi. Dopo sette anni, il tasso di recidiva è stato leggermente inferiore per il gruppo DR ( 61,5 % contro 68,6 % per il gruppo MT . )
Quale standard di cura è migliore?
Questo studio randomizzato ha quindi trovato che un protocollo di riduzione dei dosaggi, che permette ad alcuni pazienti di interrompere con successo l’assunzione dei farmaci antipsicotici, produce risultati complessivamente superiori al protocollo standard di cura che sottolinea l’assunzione continua di medicinali a dosaggi più alti.
Ora, alcuni dei pazienti nel gruppo MT decisero autonomamente di sospendere l’assunzione di antipsicotici durante i sette anni della ricerca, ciò ha permesso una seconda comparazione dei dati. Wunderink riporta i risultati per tutti i pazienti dello studio che hanno interrotto gli antipsicotici o ne hanno preso una dose molto bassa, indipendentemente dal gruppo al quale erano stati assegnati, e ha confrontato i loro risultati con quelli dei pazienti che hanno mantenuto le dosi standard di antipsicotici.
Ventidue pazienti del gruppo DR sono finiti in questa categoria “senza farmaci/basso dosaggio”, altri 12 del gruppo MT. Quando Wunderink ha confrontato questi 34 pazienti con i 69 pazienti che hanno continuato ad assumere dosi standard di farmaci antipsicotici, ha trovato una notevole differenza nei risultati. I gruppi a basso dosaggio/senza farmaci avevano più probabilità di raggiungere la remissione dei sintomi ( 85,3 % contro 59,4 % ) , la remissione funzionale ( 55,9 % contro 21,7% ) e la guarigione ( 52,9 % contro 17,4 % ).
In conclusione, Wunderink ed i suoi colleghi hanno dimostrato due dati importanti. Il primo è che gli antipsicotici possono ostacolare il recupero funzionale a lungo termine. “Il blocco post-sinaptico del sistema di segnalazione della dopamina, in particolare dei tratti mesocorticale e mesolimbico, non solo può prevenire e mitigare lo squilibrio psicotico ma potrebbe anche compromettere importanti funzioni mentali come la vigilanza , la curiosità, la motivazione, e il livello di attività, e in una certa misura l’efficienza delle funzioni esecutive”.
I metodi per valutare gli esiti
In secondo luogo ha argomentato che i metodi tradizionali per valutare gli effetti degli antipsicotici – che si sono concentrati sul controllo dei sintomi psicotici su periodi brevi – sono errati e che la psichiatria deve adottare una nuova prospettiva al fine di valutare meglio l’utilità dei farmaci. “I risultati di questo studio conducono alle seguenti conclusioni: gli studi sul trattamento della schizofrenia dovrebbero includere come indici principali la guarigione o i tassi di remissione funzionale e dovrebbero includere follow-up a lungo termine dai 2 anni fino a 7 o più. Nel presente studio, il peggioramento nel breve termine, come il tasso di recidiva più elevato, scompariva sul lungo termine e i benefici che non erano evidenti nella valutazione a breve termine, quale il miglioramento funzionale, sono apparsi solo nel monitoraggio a lungo termine.”
In sintesi , sia Harrow che Wunderink forniscono la prova, di tipo complementare, della necessità di un protocollo alternativo per la somministrazione dei farmaci che comporterebbe di non far assumere antipsicotici ai pazienti al loro primo episodio e, in tal modo, ha permesso l’identificazione di un sottogruppo di persone che potrebbero stare bene alla lunga senza farmaci( o con dosi molto basse ). Nello studio di Wunderink, poco più del 40 % dei pazienti assegnati al gruppo DR sono stati bene sospendendo la terapia o assumendo una dose molto bassa a lungo termine.
L’Open Dialogue in Finlandia
Se si volesse poi fare un ulteriore passo evidence-based verso il cambiamento dei protocolli per gli antipsicotici si dovrebbe fare uno studio in cui una struttura di cure psichiatriche ha abitualmente sospeso o ridotto la somministrazione di farmaci e ha seguito i pazienti per un periodo più lungo di tempo. Uno studio di questo tipo rivelerebbe se i risultati delle ricerche reggono quando sono utilizzati in un contesto di cura routinario.
I dati dei professionisti che praticano la terapia Open Dialogue nel nord della Finlandia forniscono delle prove e fanno compiere alla ricerca un passo ulteriore. Nella terapia Open Dialogue si ritarda l’uso di antipsicotici nei pazienti con esordio psicotico nella speranza che con il giusto supporto psicosociale e l’uso selettivo di benzodiazepine (per mantenere il ritmo sonno-veglia, n.d.r.), possano attraversare la loro prima crisi senza esser mai costretti a utilizzare antipsicotici. Nel caso in cui i pazienti dovessero ricorrere al loro uso il protocollo Open Dialogue permette di sospenderne l’assunzione in un secondo momento.
Con questo uso selettivo di farmaci antipsicotici l’Open Dialogue ha prodotto i migliori risultati a lungo termine del mondo sviluppato. Dopo cinque anni il 67 % dei pazienti che hanno avuto un primo episodio psicotico non hanno mai utilizzato antipsicotici e solo il 20% assumono regolarmente farmaci. Con questo protocollo farmacologico l’80% dei pazienti hanno buoni risultati nel lungo termine senza usare antipsicotici.
Un’indicazione per il cambiamento
Così questi tre studi insieme forniscono una chiara indicazione per il cambiamento. Essi forniscono prove convincenti che se la psichiatria vuole ottenere i migliori risultati possibili sul piano del funzionamento psicosociale è necessario che adotti protocolli in grado di massimizzare la percentuale di pazienti che sono in grado avere un buon funzionamento senza antipsicotici ( o in dose molto bassa ). L’unica domanda che rimane è questa: quanto è grande questo sottogruppo di pazienti? Harrow e Wunderink suggeriscono che almeno il 40 % di tutti i pazienti rientrano in questa categoria mentre gli studi dell’Open Dialogue indicano che, se si evita di utilizzare antipsicotici sin dal primo episodio, la percentuale può salire all’80 % di tutti i pazienti.
In un importante editoriale sul numero di JAMA Psychiatry in cui Wunderink ha pubblicato i suoi risultati Patrick McGorry e i suoi co-autori sostengono che la psichiatria deve rispondere a questi dati di ricerca e adottare nuovi protocolli di utilizzo degli psicofarmaci. Se leggete attentamente l’editoriale gli autori abbracciano entrambi gli elementi caratteristici dell’Open Dialogue per la prescrizione di antipsicotici. Scrivono infatti:
“Nel passaggio ad una medicina più personalizzata e stratificata, dobbiamo prima identificare il piccolo numero di pazienti che possono guarire dopo l’esordio psicotico con i soli interventi psicosociali intensivi. Per tutti gli altri, abbiamo bisogno di determinare quale farmaco, per quanto tempo, in quale dose minima, e quali tipi di interventi psicosociali intensivi saranno necessari per aiutarli a stare meglio, mantenersi bene e condurre una vita appagante e produttiva. Le risposta a questi interrogativi raramente sono state tra gli obiettivi reali della clinica psichiatrica ma ora li dobbiamo finalmente affrontare perché ci sono evidenze forti per contrastare le prassi scorrette”.
Questo è stato il discorso fatto sulla rivista scientifica JAMA Psychiatry. Ci sono nuove prove per reagire alla pratica professionale di bassa qualità. Provare ad accompagnare le persone attraverso il primo episodio con “soli interventi psicosociali”, e per il resto dei pazienti, adottare protocolli che aiutino le persone a utilizzare dosi minime di antipsicotici o eliminarli del tutto a lungo termine. La psichiatria ha un mandato evidence-based per cambiare.
A mio parere, questo rappresenta un momento decisivo per la professione psichiatrica. Se cambierà i suoi protocolli secondo le indicazioni dell’editoriale di JAMA Psychiatry mi toglierò il cappello di fronte a una psichiatria che avrà reagito ai dati – che non erano emersi negli studi di breve periodo sulla sospensione dei farmaci – e avrà adeguato i suoi metodi in funzione delle nuove evidenze, pur nella difficoltà di farlo. Questo sarebbe sicuramente un cambiamento bello e stimolante cui assistere.
Ma se la psichiatria non modificherà i suoi protocolli e se non promuoverà una nuova ricerca per raggiungere questi obiettivi allora – non so come altro dirlo – penso che la psichiatria dovrà essere vista dalla società come una disciplina medica finita. La psichiatria non sarà più in grado di affermare che le sue pratiche sono evidence-based e spinte dal desiderio di ottenere i migliori risultati possibili per i suoi pazienti. Al contrario, la mancanza di cambiamento sarà la prova che le sue pratiche di prescrizione sono, in realtà , guidate da un’ideologia che è quella di mantenere il mito che gli antipsicotici sono un trattamento necessario a lungo termine per i disturbi psicotici e che è più importante per la professione psichiatrica mantenere questa convinzione invece di aiutare i pazienti a massimizzare le possibilità di raggiungere un buon risultato funzionale, che è il risultato che conta.
Cosa succederà? Il mio sé ottimista spera nel primo risultato mentre il mio sé realista si aspetta il secondo. E se dovesse verificarsi la seconda ipotesi questa sarà la storia medica di un danno perpetrato con continuità e, direi, sarebbe il motivo per la nostra società di concludere che la cura dei pazienti ” psicotici” non può più essere affidata alla professione psichiatrica.
Aggiornamento
(del 21.05.14) Ho scoperto che è liberamente disponibile su youtube l’intero documentario “Open Dialogue” già sottotitolato in italiano.
Grazie dunque al regista (e psicoterapeuta) americano Daniel Mackler e alla traduttrice Patrizia Ferrara.
Traduzione dr. Davide Baventore a cui vanno i nostri ringraziamenti.
Tratto da psicologiasistemica.net